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Tre Film Al Giorno, Tre Libri Alla Settimana, Dei Dischi Di Grande Musica Faranno La Mia Felicità Fino Alla Mia Morte. (François Truffaut)
venerdì 5 dicembre 2025
giovedì 4 dicembre 2025
Adolescence - Philip Barantini
il regista, Philip Barantini, è lo stesso di Boiling point, e si vede.
la storia di Adolescence si svolge in quattro atti, quattro visioni, coinvolgimenti, approcci allo stesso fatto, un omicidio terribile commesso da un ragazzino, Jamie, di 13 anni.
nessuno capisce perchè è successo, né la scuola, né la polizia, nè la psicologa, neanche i genitori, solo Jamie potrebbe spiegarlo, ma gli mancano le parole, quello che è successo è troppo reale rispetto a quello che immaginava.
i ragazzini e le ragazzine sono un mondo a parte, sconosciuto agli adulti, le incomprensioni e ignoranze fra adulti e ragazzini/e fanno sembrare i loro mondi antropologicamente diversi, inconciliabili.
un film da non perdere, vedrete.
buona (sofferta) visione - Ismaele
…Seppur
il piano sequenza sia il segno autoriale del regista - ne è un esempio il
film Boiling Point (2021), girato interamente in un’unica
ripresa - in Adolescence, il piano sequenza raggiunge la sua
acme espressiva. Il suo uso si allontana dall’essere semplice manifesto di
virtuosismo tecnico, di maestria registica, è un legame viscerale che si
intreccia alle pieghe emotive dei personaggi, alla tensione della storia,
e si annoda – stretto – alla percezione di chi guarda.
La polizia a cui è assegnata l’indagine, l’ispettore
capo e il sergente capo, gli insegnati, gli studenti, la famiglia, la
psicologa, le guardie carcerarie, Jamie Miller e noi, con loro, siamo
incatenati da un filo che non guida, ma trattiene, e affonda nel subconscio
collettivo, trascinati in una storia senza stacchi, senza montaggio: una
storia vera.
E il “vero” riporta agli anni '20, in Russia. Da un
lato Dziga Vertov che, con il suo “cine-occhio”, voleva
catturare la vita colta sul fatto, ma non si accontentava di registrarla. La
smontava, la scomponeva, la rimontava: la riscriveva al montaggio per
rivelarne il senso più profondo, quello invisibile agli occhi. Il montaggio era
il suo modo per gridare la verità attraverso l’illusione. Eppure,
quella verità era pur sempre una costruzione. Una selezione. Una presa di
posizione.
Dall’altro lato, Alexander Dovzhenko, più
vicino a Barantini, che nella sua ricerca della verità rifiuta il montaggio
come strumento che frammenta e manipola la realtà. Cattura la verità nella sua
interezza, senza distorsioni, per immergere lo spettatore nelle emozioni pure e
incontaminate che essa suscita…
…E
mentre Jamie si muove nel silenzio della sua rabbia, immerso nell’abisso del
mondo digitale, gli adulti – l’ispettore Luke Bascombe (Ashley
Walters), il sergente Misha Frank (Faye Marsay), la
psicologa Briony Ariston (Erin Doherty), i docenti, la sua
stessa famiglia – restano fermi, aggrappati a un tempo che non esiste più.
Proiettati nel passato, in coordinate culturali che hanno perso ogni validità,
vengono travolti da una realtà che non riescono più a decifrare.
Tutti noi adulti restiamo indietro, colpevoli non
solo di ignorare, ma di non saper leggere. Incapaci di cogliere i
segnali del disagio, il nuovo linguaggio del dolore, l’urgenza muta che cresce
tra i banchi di scuola e dietro gli schermi, dove i bambini vedono
violenza, respirano solitudine e si raccontano solo
attraverso simboli, like, status. Crescere in questo tempo
significa smettere troppo presto di essere piccoli, perché il mondo non
aspetta, non protegge, non ascolta.
…Prendete il terzo episodio, il più struggente, il più
chiarificatore, il più insostenibile. Quello in cui si
fronteggiano Jamie, il ragazzo accusato dell’omicidio (Owen Cooper, scelto tra 400
partecipanti al provino, esordiente, impressionante, bravissimo, clap clap
clap) e la psicologa che tenta di capire il perché di tutte le cose. Un lungo
dialogo intorno a un tavolino (lei per quasi tutta la durata seduta, lui che si
alza seguendo il flusso sinusoidale del suo sconnesso discorso), con le
videocamere che si muovono senza sosta, andando
spesso ben oltre il bisogno di sottolineatura. Come se fosse
una marcatura continua e non una messa in evidenza. E allora, viene da sé, non
è una sottolineatura, è un’intenzione ben
definita: prendere lo spettatore televisivo e immergerlo nella materia trattata,
fare in modo che ne sia pervaso dovunque, senza possibilità di distrazione,
sballottandolo avanti e indietro, intorno e in tondo, giocando sul ritmo e sul flusso, più che
evidenziando i singoli aspetti drammatici. Che pur ci sono, ma
che entrano in una relazione più ampia all’interno di una tensione data
dall’ipertrofia dell’azione, non dall’accentuazione dei particolari…
…In molti hanno criticato la
scelta degli autori di non rappresentare il cosiddetto lato della vittima (che
si chiama Katie e non viene mai mostrata, così come la sua famiglia), ma la
mancanza di Adolescence è più ampia: è l’incapacità di chi
scrive di svestirsi di uno sguardo giudicante nei confronti di tutti i
personaggi che il titolo nomina direttamente.
Che siano vittime, carnefici o comparse.
La foga nella ricerca di una verità (chi è stato? perché?) si risolve nella
rappresentazione approssimativa di una categoria umana di impossible
kids troppo compatta, priva di ambiguità, di contraddizioni e di tutti
quei retroscena personali che dovrebbero infondere nei personaggi il soffio
vitale.
Tutto quello che gli adolescenti (maschi) sembrano saper fare nella serie è
trasgredire su vari livelli: uccidendo, scappando dalla polizia, mentendo con
grande cognizione di causa, taggando le fiancate dei furgoni, sfottendo i
professori, ridendo in faccia ai poliziotti che, di fronte alla classe,
annunciano l’omicidio di Katie.
Tutto quello che le adolescenti (femmine) sembrano saper fare nella serie è prima subire la mascolinità aggressiva dei compagni e poi reagire con rabbia, cattiveria o rassegnazione.
Il risultato è una messinscena di brutture presentate come normalità,
smorzate da fugaci momenti di apertura, di fragilità e di tenerezza che
risultano essere fin troppo suggeriti e didascalici per essere credibili.
Emblematica in tal senso è la scena in cui il figlio adolescente di Bascombe spiega al padre - per spiegare allo spettatore - il significato segreto delle emoji nei commenti di Instagram, comportandosi di fatto come il boomer che non è.
Intendiamoci: Adolescence è una serie che si fa guardare.
Barantini sceglie di girare le quattro puntate interamente in piano sequenza, con la macchina da presa che segue i personaggi fra i corridoi della centrale di polizia, della scuola e di casa, concedendosi anche di prendere il volo in dronate pirotecniche che servono assist facili ai video di making of.
Gli attori, grandi e piccini, regalano splendide performance: Stephen
Graham si conferma un mostro di bravura, al pari di un
giovanissimo Owen Cooper, di cui credo si sentirà molto parlare.
Resta però il fatto che la sceneggiatura e la regia di Adolescence
ingabbiano i personaggi con una messinscena che si distingue più per quel che
ignora, che per quel che mostra.
Nasce così un’opera che tratta lo spettatore con i guanti, che sceglie troppe angolazioni per potersi permettere di entrare davvero nel vivo, che suona forte l’allarme senza prendersi la responsabilità di dar voce ai veri protagonisti della tragedia. E di ascoltarli…
…La natura inevitabilmente true crime della serie, da
questo punto di vista, non rinuncia nel lasciare un grande spazio a un’indagine
che a modo suo possiede anche un’anima sentimentale, come nell’esplorazione del
rapporto tra il detective Bascombe e suo figlio, o nel soffermarsi esplicitamente
sui disagi, sui sensi di colpa e sul futuro della famiglia Miller. In tal
senso, Adolescence gioca
con la messa in scena evitando le trappole tipiche del genere di riferimento.
Lo fa perseguendo strade inaspettate, come il vagare errante delle forze dell’ordine
nel secondo episodio, incapaci di comprendere fino in fondo i drammi giovanili,
e anche nel suo proiettarsi verso una conclusione che non ambisce ad
alcun climax edificante,
se non la speranza di una ricomposizione famigliare che comprenda il dolore e
la sofferenza…
Adolescence è un capolavoro di scrittura, regia e recitazione, capace di restituire dignità alla narrazione seriale sfruttando una costruzione in quattro episodi autonomi, tutti diversi ma estremamente coerenti, per porre domande aperte sull’inconoscibilità dell’essere umano. I teenagaer, sospesi tra la vulnerabilità dei bambini e il bisogno di conferme degli adulti, rappresentano una cartina da tornasole efficacissima per raccontare il senso di confusione dell’umanità in un mondo privo riferimenti etici, nel quale i social network offrono solo conferme apparenti o rifugi estremamente soffocanti. La serie di Jack Thorne e Stephen Graham evita tuttavia soluzioni sbrigative e tesi preconfezionate, scegliendo una cifra autorale in cui il ricorso al piano sequenza evoca magnificamente la solitudine dei personaggi, l’assenza di un controcampo nelle relazioni, il filo sottile che lega l’esperienza individuale col resto della comunità, l’incapacità d’imboccare la strada giusta dentro un labirinto di scelte. Una visione straziante, indimenticabile e doverosa, per comprendere meglio dove ci troviamo.
mercoledì 3 dicembre 2025
martedì 2 dicembre 2025
Armand - Halfdan Ullmann Tøndel
un problema scolastico come tanti, diventa nel corso del film uno psicodramma.
una cosetta da bambini si trasforma in una bomba che esplode nei rapporti fra i genitori, e con la scuola.
una povera maestra cerca di chiudere il problema con i genitori, ma non è così facile.
i bambini non appaiono, meno male, non sono loro il problema.
i bambini sono cugini, cioè le madri sono cognate, e hanno conti da risolvere.
il racconto della madre offesa viene "taroccato" per destabilizzare la cognata.
le attrici e gli attori sono bravi, esprimono bene la tensione della riunione, e il peso della responsabilità genitoriale.
non sarà un capolavoro, ma si vede bene.
buona (scolastica) visione - Ismaele
…un film che scava nelle dinamiche che intercorrono tra la scuola e le
famiglie, tra le famiglie stesse e all'interno di ognuna di esse. Tøndel, che
tra i suoi modelli di riferimento mette al primo posto Buñuel, si concede due
sequenze che si staccano dallo stretto realismo ma riesce (grazie anche a un
cast perfetto e, in particolare, a una straordinaria Renate Rensve nel ruolo
della madre di Armand) ad offrire allo spettatore situazioni in cui il sorriso
si mescola alla tensione creata da una situazione insolita ma possibile. È
molto positivo poi che i due bambini non vengano coinvolti nella disputa,
neppure in flashback. Sono le interpretazioni degli adulti che stanno al centro
della scena, con le proiezioni che emergono dal loro vissuto relazionale che
vengono sottoposte alla valutazione dello spettatore chiamato, come i
personaggi sullo schermo, a cercare di capire dove stia la verità. Chi tra gli
spettatori ha fatto parte del corpo docente avrà in più l'occasione di
confrontarsi con quanto direttore ed insegnante cercano di porre in atto per
arrivare a un risultato condiviso e chiedersi come avrebbe agito in una
situazione analoga. Fino ad arrivare ad un epilogo forse atteso. O forse no.
…Armand si configura ben presto come una Via Crucis in
cui le colpe sono stazioni di un Calvario da espiare, in cui i fardelli che
ogni umano si porta addosso sono le armi non convenzionali di una continua
sfida. Ha ragione Federico Gironi, nella sua recensione da Cannes, a
sottolineare l’anima urticante del film. Tutti i personaggi sono caricati di
una tensione “nera” che sa renderli insopportabili, in qualche modo colpevoli a
priori. In Armand si scontrano – coalizzandosi e poi
abbandonandosi per coalizzarsi ancora – anime contrapposte. La presunta
cristallina purezza di una classe docente che per amor di trasparenza cerca
l’insabbiamento; una coppia apparentemente lucida che si perde in respiri di
vendetta; una mater dolorosa (Renate Reinsve, al solito
magnifica) che, oberata dai sensi di colpa, punta a un’impossibile redenzione.
…Un non-luogo mentale,
una sorta di inconscio collettivo in cui segreti e bugie si ramificano e le
verità nascoste man mano emergono, ma mai in modo diretto, bensì negli sguardi
ambigui, nel non detto o nel sottaciuto, dirottate da improvvise esplosioni di
psicodramma, o da coreografie di teatrodanza (straordinario il balletto
disarticolato da “bambola meccanica” di Renate Reinsve). Alquanto ambizioso,
dunque, l’intento di Halfdan Ullmann Tøndel, fin troppo dimostrativo, da primo
della classe, nel momento in cui l’ordito di questo simbolismo urlato si pone
troppo in rilievo rispetto alla narrazione, finendo col soffocare le emozioni…
…I dialoghi non
paiono mai decollare al di sopra di un canovaccio di illazioni e tic
psicolinguistici, che fanno da anticamera all’utilizzo, che in
"Armand" diventa quasi un abuso, di scene madri. Come l’attacco di
"ridarella" di svariati minuti accorso a Elizabeth, preludio a una
crisi di nervi, che Renate Reinsve prova a rendere credibile ma, pur
riuscendoci, il palese intento di provocare fastidio allo spettatore non fa
altro che ribadire la sua forzata intenzionalità. Oppure il balletto con cui la
stessa Elizabeth si accompagna a un inserviente della scuola, i corpi che si
accavallano in un’orgia superficiale, le mani che si protendono verso la
protagonista superando persino l’allucinazione collettiva. Proprio in queste
sequenze possiamo riscontrare alcuni riferimenti: a parere di chi scrive, non
al cinema scandinavo pare guardare Halfdan Ullmann Tøndel, bensì ad alcuni
episodi perturbanti di un certo cinema autoriale…
…Un quadro reso
instabile dal progressivo emergere delle nevrosi dei protagonisti, risate
nervose ed incontrollate, scatti d’ira, imbarazzi. E che si trasforma in un
dibattimento processuale dove sotto accusa è la madre, per il suo stile di vita
emancipato ed un comportamento giudicato da una società ancora bigotta. Un
esordio con ampi margini di miglioramento, ma già un ottimo biglietto da
visita. Da Renate Reinsve arriva invece una conferma, in un ruolo meno basato sul
coinvolgimento fisico, con maggiore gestualità ed espressività del volto.
Lascia invece perplessi il finale, allusivo, metaforico, ed anche superfluo nel
mettere il punto a quanto già mostrato in precedenza.
…Nonostante
non sia sempre a fuoco nei suoi percorsi ondivaghi, Armand rimane un’operazione coinvolgente, in
particolar modo grazie alle interpretazioni impeccabili del cast. Reinsve si
riconferma una delle attrici più talentuose del panorama cinematografico
nordico, navigando con abilità tra i registri emotivi di un personaggio
complesso e insondabile, ma anche le interpretazioni di Ellen
Dorrit Petersen e di Endre Hellestveit –
nei panni dei genitori dell’altro bambino coinvolto – offrono una controparte
emotiva altrettanto valida, arricchendo il film di sfumature sottili e di
conflitti inespressi.
Con il suo debutto, Halfdan Ullmann Tøndel dimostra un’indubbia
maestria tecnica e un coraggio creativo. Tøndel rivela un talento istintivo nel
manipolare il linguaggio visivo per esplorare i confini tra realtà e
immaginazione, non offrendo mai risposte chiare o sicure, bensì insinuando
nella mente dello spettatore le sue immagini incerte (pensiamo, tra le tante,
al giubbotto rosso di un bambino, appeso nel corridoio della scuola), le quali
si impongono come sparuti frammenti di senso caratterizzati da una forza
insolita, dall’aura misterica, simbolica, liminale.
lunedì 1 dicembre 2025
Lo schiaffo - Frédéric Hambalek
per un caso fortuito Marielle, 11 anni, da un certo momento in poi, riesce a sentire tutto quello che dicono i genitori, e capisce quanto i genitori siano dei bugiardi patologici, quello che succede davvero è ben altra cosa rispetto a quanto i genitori raccontano a tavola.
i bambini guardano (e ascoltano) i genitori e i genitori non possono più dire bugie impunemente, neanche fra loro.
il film segue la linea di una commedia con tocchi di umorismo nero, niente di straordinario, ma si vede bene.
buona (bugiarda) visione - Ismaele
Dietro l'apparenza di una vita perfetta, Julia e Tobias
nascondono tensioni e segreti che la loro figlia Marielle è destinata a
scoprire. Quando, dopo aver ricevuto uno schiaffo, la bambina sviluppa
misteriosi poteri telepatici, nessuna menzogna può più essere taciuta: ogni
pensiero, ogni gesto, ogni bugia viene smascherata.
Mentre la verità invade la loro quotidianità, la coppia si ritrova in un gioco
di manipolazioni e recriminazioni sempre più assurdo e ironico, che mette a
nudo la fragilità dei rapporti familiari e il bisogno, spesso contraddittorio,
di sincerità e finzione…
…Alla fine, tutto si congela; tutto è un respiro cinematografico. Quel colpo permane, fragile e potente, come una fiaba che oscilla tra tenebra e luce, un gesto minuscolo che alza l’attenzione sui tratti narrativi più nascosti. In esso risuona l’eco profonda della poesia di Rainer Maria Rilke, dove il silenzio diventa voce più eloquente di un’intonazione qualsiasi. È un cinema che trasforma il quotidiano in lirica, il silenzio in melodia, il gesto in enigma. Un racconto che avvolge senza spiegare, che sussurra anziché gridare, capace di rendere universale il frammento più piccolo, e di mutare la vita in un incanto visivo e sensoriale.
No. Lo Schiaffo diretto da Hambalek è – al presente – una violenza subita, agitazione animalesca, infida e disumana nelle allitterazioni sensibili di una fanciulla. Sono due occhi neri talmente profondi da non accorgersi di quanto ci abbia fatto male la reazione improvvisa e veloce. Il colpo è stato un colpo eppure è sembrato un soffio, un fastidio, un fascio di luce, una mano trasparente che ci ha segnato, ammazzato, che ha stonato, che ha diretto curiosità in verticali e fin troppo laboriose per ciò che dovrebbe essere: amore.
…In un’opera che affida alle piccole verità del
quotidiano la propria sostanza, è il lavoro degli attori a determinarne la
riuscita, e Lo schiaffo la conquista grazie a un cast che sceglie la
via della sottrazione. L’ensemble opta per un registro estremamente
naturalistico, in perfetta sintonia con la scrittura secca e arguta di
Hambalek: insieme, riescono a creare un ambiente domestico credibile fino al
disagio, per quanto attraversato da un’idea soprannaturale. Julia Jentsch e
Felix Kramer, nei panni di due genitori doppiogiochisti, maldestri e
dolorosamente umani, sono il cuore pulsante del film: attraverso i loro
personaggi Hambalek esplora con precisione millimetrica la colpa, la
costruzione di un’immagine di sé e l’autodisprezzo che si annida tra le pieghe
della rispettabilità. Sono figure sgradevoli eppure, per certi versi, prossime:
si ride di loro, ma non senza avvertire il disagio di una vicinanza, come se
ogni loro goffo tentativo di salvare la faccia ci rimandasse uno specchio più
opaco ma non meno fedele. La sceneggiatura è serrata, rapida, costantemente
attraversata da un umorismo asciutto che convive con intuizioni più amare su
come le nostre vite siano plasmate dalla performance e dalla disonestà in quasi
ogni gesto. Le gag, spesso fulminanti, contengono dichiarazioni ingannevolmente
limpide su quanto delle nostre azioni sia mosso da impulsi egoistici e,
soprattutto, su come il nostro comportamento muti nel momento in cui sappiamo
di essere osservati: non è solo la bambina a scrutare i genitori, siamo noi, di
riflesso, a interrogarci su quanto ci esibiamo davanti a chi amiamo. In questo
senso il film firma una brillante decostruzione della fragilità dei muri
domestici: il matrimonio e la genitorialità vengono mostrati come dispositivi
porosi, attraversati da segreti, omissioni, piccoli e grandi tradimenti. Lo schiaffo suggerisce che la disonestà più grande, all’interno di
una famiglia, non risieda tanto in ciò che si nasconde, quanto nei ruoli che ci
ostiniamo a interpretare, nelle maschere che non abbiamo il coraggio di
togliere nemmeno davanti a chi dovrebbe conoscerci davvero. Il ritmo del film è
nervoso, quasi irrequieto, e accompagna la crescente assurdità della situazione
familiare, come se la messa in scena non riuscisse più a reggere il peso di
tutte le bugie. Il montaggio di Anne Fabini calibra con precisione i tempi
comici: sa quando tagliare una scena per ottenere il massimo impatto, quando
lasciare respirare una battuta, quando interrompere all’improvviso un momento
d’intimità per trasformarlo in qualcosa di profondamente imbarazzante…
…Lo schiaffo è
girato quasi esclusivamente all’interno di case ed uffici, modelli precisi da
colpire per rivelare quanto negli ambienti confortevoli, negli spazi
rassicuranti ci siano luoghi ideali per creare un contrasto. Ma sono le persone
che li abitano, i loro volti, le loro parole e i loro comportamenti, è insomma
il cosiddetto lato attoriale a suscitare ilarità, la espressioni facciali, le
smorfie, i tempi comici dei dialoghi, che un buon cast rende efficaci. Venuti i
nodi al pettine nel finale il tono acquista maggiore profondità drammatica, ma
è sola una chiusa necessaria a sottolineare il cambiamento, a prendere in seria
considerazione i problemi, a svegliarsi da quel torpore illusorio in cui
vivevano confinati. Dei personaggi viene rivelato il minimo per fornire degli
agganci al progredire della storia, che ha un andamento lineare senza sbalzi
temporali. Hambalek fotografa il presente, poi lo scombina. La buona riuscita
degli sketch è frutto della straordinaria idea iniziale, in quel inserire
qualcosa che sfugge al controllo, nel fare ricorso al magico. Un film leggero,
di stile poco autoriale, considerata la totale rinuncia ad una prospettiva, ad
un’estetica personale. Un film di intrattenimento che non ha sottotesti, ne
diversi piani di lettura, perché si dimentica di scavare nelle solitudini, nei
desideri inconfessabili. Forse troppo frettoloso a svuotare i caratteri per
renderli idonei al meccanismo, ne ignora la psicologia, lasciando allo
spettatore una narrazione tutta fatta per il ritmo, una costruzione più
televisiva che festivaliera, per quanto poco valgano di questi tempi certe
differenze.
Ci manca di capire da dove proviene davvero l’inquietudine di Marielle, ed
un sospetto cade inevitabilmente sulla mancanza dei genitori durante il suo
processo di crescita, sostituiti dalla nonna materna a tamponare quelle assenze
che possono diventare traumatiche. E neanche le fantasie sessuali represse di
Julia, risultato di poca attenzione e trascuratezza, o l’insicurezza di Tobias
sul lavoro, sono chiari e sono toccati soltanto di passaggio. Uno sguardo più
approfondito e meno superficiale nel buio avrebbe reso il film degno di un
attenzione che non può andare oltre un semplice svago.
…Hambalek, però, non è Lanthimos, nemmeno Haneke o
Seidl: se l’incipit del film, verbalmente esplicito
nell’immaginazione di spericolate fantasie sessuali, lasciava presagire
un’esplorazione incendiaria delle dinamiche relazionali ed esistenziali, il proseguo delle vicende non trova invece
corrispondenze altrettanto marcate, traghettando il film su sponde assai meno
brucianti: l’incerto, precario barcollare su cui poggia
inizialmente l’opera si distende, via via, in una camminata più convenzionale e
‘anestetizzata’, le misteriose implausibilità che la tengono a galla nella
prima parte sfociano, talvolta, in un’ironia goffa e tardiva. Il ‘bisogno’ di
raccontare arriva a prevaricare sull’introspezione e lo scandaglio.
Conseguentemente, la rimessa a fuoco della propria privacy arriva a placare le fiamme di un microcosmo umano
pericolosamente autoriferito. In questo senso, Lo schiaffo, alla resa dei conti, appare più un’occasione
mancata che un lungometraggio riuscito. Anche se l’ultima sequenza, prima dei
titoli di coda, riaccende la scintilla di una stuzzicante ambiguità
interpretativa.
domenica 30 novembre 2025
40 secondi – Vincenzo Alfieri
il film segue, nelle ultime 24 ore, la vita di alcune persone coinvolte, in qualche modo, nella vicenda criminale, e per questo riusciamo a sapere e capire tante cose.
Willy è un bravo ragazzo, che non riesce a non intervenire in quella che sembra una rissa da discoteca come tante.
ma le cose si complicano, in 40 secondi il dramma esplode, e poi non restano che le lacrime e il dolore.
un film che andrebbe visto in tutte le scuole, ma chissà se succederà.
bravo il regista, gli sceneggiatori e tutti gli attori e le attrici.
un film da non perdere, senza dubbio.
buona (drammatica) visione - Ismaele
ps: da vedere anche:
Preghiera per Willy Monteiro, di Aurelio Picca: QUI, (su Raiplay)
(su Raiplay)
…Non solo Willy si era fatto avanti per aiutare un
amico, ma era fermo, immobile, senza alcun segno di attacco o prepotenza
quando, dal nulla, i gemelli Gabriele e Marco Bianchi lo hanno attaccato. Nel
film chiamati Lorenzo e Federico. In 40 secondi viene raccontato il giorno precedente, si parte da 24
ore prima. Se invece l’adottare la tecnica di narrare una storia da più punti
di vista sia qualcosa di già visto, Vincenzo Alfieri va oltre, perché adotta sei
diverse prospettive. Si vedono i gemelli, i due ragazzi che furono
anche loro condannati per aver in qualche modo aizzato al pestaggio, Michelle,
un’amica di Willy, motivo di gelosia tra i due gruppi coinvolti nella rissa, il
poliziotto che trovò Willy senza vita e Willy stesso. Ognuna sta trascorrendo una
giornata come tante, ognuno non sa che la loro vita cambierà per sempre di lì a
poche ore. La tensione, nonostante si sappi cosa succede, fa fremere e
palpitare, come se non si sia a conoscenza di quanto stia per accadere…
…40 secondi è
un film che andrebbe proiettato nelle scuole. Perché parla di coraggio,
amicizia, rispetto, scelte sbagliate e conseguenze irreversibili. Racconta come
la violenza possa esplodere in pochi istanti e cambiare per sempre la vita di
un’intera comunità. Fa riflettere sulla responsabilità individuale e
collettiva. A seguito del caso Willy, il governo Conte introdusse il cosiddetto Daspo Willy:
una misura che consente di vietare l’accesso a locali pubblici e aree di
ritrovo a persone considerate socialmente pericolose, con l’obiettivo di
prevenire aggressioni e violenze nei luoghi della movida.
40 Secondi è un film doloroso e importante. Un film, e una
storia, che purtroppo non dimenticheremo mai. È necessario tramandarlo per far
sì che incidenti del genere non capitino mai più.
Nel processo ai fratelli Bianchi, responsabili di un pestaggio
violentissimo che ha visto morire il giovane Willy Monteiro, uno dei fratelli
dice, e viene citato alla fine del film con il video:
“se la violenza che dite voi fosse vera, essendo noi così esperti in
materia, si vedrebbero i segni sul viso e dappertutto, non crede?” Il P.M.
risponde: (e il montaggio in questo è eccezionale)” Guardi che Willy è morto!”.
In questa risposta mi sembra di rintracciare altro che non so scrivere ma
ci provo: andando oltre al processo, alla difesa chiara di chi non capisce cosa
ha fatto o che vuole salvarsi da una condanna che arriverà, saggiamente, con
l’ergastolo per la gravità della violenza. Mi sembra di poter dire che in un
mondo connesso, la comprensione dei fatti, dei gesti, dei nostri gesti, della
forza, delle parole, sia fuori gioco non ci sia più; e allora un film come “40
Secondi” è così prezioso nel ricostruire un fatto brutale, e nel farlo traccia
una serie di tasselli…
…Ciò che rende la pellicola così
efficace è la sua struttura: quattro punti di vista differenti - Willy
(interpretato da Justin De Vivo), Michelle (Beatrice Puccilli), i fratelli
Lorenzo e Federico Bianchi (Luca Petrini e Giordano Giansanti), Maurizio
(Francesco Gheghi) - convergono nel tragico epilogo finale. La macchina da
presa sta letteralmente addosso ai suoi attori, di cui si ricordano dettagli
come una linea di matita nera sugli occhi, il viola di un livido, un bacio
tatuato o le gocce di sudore sulla fronte. Alfieri, che attore lo è stato,
lascia che si muovano liberi nello spazio ma senza mai uscire dai rispettivi
personaggi, costringendoli a respirarne gli umori e a restituirli sullo
schermo. Ciascuno di loro appare nel suo habitat naturale, privo di filtri e
sopraffatto dall'afa di una torrida giornata settembrina…
…40 secondi è film bellissimo che non scade nella morbosità
voyeuristica che purtroppo un dramma simile poteva portare e che Vincenzo Alfieri
ha trasformato nel suo C’era una volta a Colleferro omaggiando il povero Willy
Monteiro Duarte nello stesso modo con cui Quentin Tarantino omaggio Sharon
Tate.
E se non è un colpo da maestro registico questo…
sabato 29 novembre 2025
Orfeo - Virgilio Villoresi
ispirato a Poema a fumetti (di Dino Buzzati), Virgilio Villoresi gira un'opera originale e coraggiosa, un film di cinema con personaggi umani e insieme cinema d'animazione.
la storia è quella di un amore complicato, Orfeo s'innamora completamente di Berenice, ma la morte la reclama.
Orfeo, disperato, la cerca dappertutto, anche all'inferno, a suo rischio e pericolo, ma non importa, non accetta un'ingiustizia così grande.
nella sua discesa agli inferi, così terrestri e così umani, pieni d'inganni e di falsità, affronta ogni trappola, ogni trucco, lui cerca l'amore della sua vita.
una giostra di colori e di effetti speciali, tutti disegnati, accolgono e accompagnano lo spettatore di un film unico.
lo si può vedere solo in meno di venti sale, ma cercatelo, nessuno se ne pentirà.
buona (amorosa e infernale) visione - Ismaele
…Orfeo è
un esordio che colpisce per coraggio e identità. Nel suo intrecciare mito,
artigianato, avanguardia visiva e un immaginario dichiaratamente
personale, Virgilio Villoresi firma un’opera prima che non
assomiglia a nulla nel panorama italiano contemporaneo. Un film che
chiede di essere guardato con abbandono, più che interpretato, e che nella sua
visione stratificata e sensoriale lascia intravedere la nascita di un autore
vero: uno sguardo capace di rischiare, di costruire mondi e di credere nella
potenza delle immagini.
…Orfeo è un pezzo di cinema di altissima qualità, ha il ritmo
di un sogno ed è girato con tecniche artigianali e sperimentali insieme;
soprattutto, ha il pregio di parlare di qualcosa che la cultura contemporanea
non osa più affrontare, la morte, e lo fa parlandone come la fine di tutto, ma
come di qualcosa che c’entra con la vita e con il significato delle nostre
attese, paure, gioie. È nell’al di là di Poema a fumetti che
i morti «con occhi vuoti» guardano «le nubi, il mare, le selve senza più
misteri». Che cos’è la vita? Perché si muore? Né Poema a fumetti né Orfeo si
azzardano a rispondere. Ma all’uomo che accanto alla porta del giardino
misterioso dice che dall’altra parte non c’è nulla, e tutto era fantasia,
Buzzati e Villoresi rispondono con una promessa sussurrata: «Un giorno ci
rivedremo»
…Giochi di specchi e di illusione che producono
"immagini intrappolate nel tempo" e personaggi ossessionati dall'atto
del vedere: è forse per questo che negli inferi-in-interni di Villoresi la
fanno da padrone le finestre pittoriche, le aperture da e verso il paesaggio,
la chiamata in causa della città, lei così ignara delle profondità oniriche che
si celano dietro le sue porte all'apparenza più innocue.
In quella milanesità tanto cara a Buzzati (un po' smussata e resa meno
novecentesca da Villoresi) c'è una villa dove avvengono metamorfosi, proprio
come nelle tavole originali qui ricalcate in inquadratura all'inizio del film.
A livello di adattamento siamo davanti a una sottile opera di riconfigurazione,
che sa essere insieme fedele e radicalmente diversa. Un po' meno Dalì, un po'
più di quella follia cinematografica che ricorda a volte un altro genio folle
come Bertrand Mandico…
…Con il
film Orfeo, Virgilio Villoresi adatta Poema a fumetti di Dino Buzzati trasformandolo
in un viaggio sensoriale e simbolico, che mescola cinema, animazione
artigianale e illusioni ottiche. “Orfeo nasce
da un immaginario che sentivo vicino,” spiega il regista a proposito del film.
“Ho scelto un ritmo che seguisse la logica instabile del sogno, girando in
16mm, costruendo scenografie a mano e usando tecniche legate a effetti ottici
concreti. Le animazioni sono in stop motion, mentre una sequenza di danza fonde
found footage di repertorio con nuove coreografie, in un omaggio intimo a mia
madre, ballerina”.
Il
risultato è un’opera che attraversa mito, amore e perdita attraverso un
linguaggio che unisce sperimentazione e memoria personale.